Una rivoluzione. Ma cosa distingue una rivoluzione da una
rivolta? Gli obiettivi, credo. Nelle rivolte, essi sono costituiti da cose
concrete che si vogliono ottenere con una provvisoria disobbedienza, più o meno
violenta, alle regole che la società impone: ma basta così. Ottenuto ciò che
voleva, sempre che la repressione non l’abbia preventivamente messa a tacere, la
rivolta cessa. Non così la rivoluzione, che non intende semplicemente
disattendere le regole: vuole sovvertirle.
Il 25 febbraio, col Movimento 5 stelle, la rivoluzione è sbarcata nel Parlamento italiano. Pacificamente. Fornendo,
alla collera sociale, alla delusione, al senso rabbioso d’impotenza che in quel
movimento trova rappresentanza, il cammino istituzionale del voto. E ha privato
la protesta, con questo, del suo carattere rivoltoso. Lasciandole però quello
rivoluzionario. Finora nessuna regola è stata infranta: il movimento, tuttavia,
alcune regole del gioco politico si propone di sovvertirle. Sono le regole che
riguardano l’organizzazione del consenso e della prassi così come essa si
presenta nei partiti tradizionali. Si sente da tempo parlare
dell’invecchiamento della forma partitica della rappresentanza civile, buona al
tempo della sua nascita ma che nel nostro tempo comincia a mostrare la corda.
E, poiché senectus ipsa est morbus, i
partiti politici presentano dovunque tratti di patologia che, in paesi fragili
come il nostro, sono tanto più evidenti e gravi. Credo dunque che, almeno
nell’intenzione (per il momento disponiamo di poco altro), la rivoluzione
proposta da questo movimento sia sacrosanta. Tanto più che essa si propone di
agire senza violenza, sebbene alcuni considerino tale quella verbale di Grillo:
ma io dissento decisamente da questa opinione. La violenza verbale risiede nella
menzogna, non nei toni alti della voce o nella truculenza delle espressioni. È
violenza l’inganno perpetrato con il garbo della voce sussurrata, non lo è la
verità gridata con parole anche rozze o volgari.
Ho molto rispetto della parola: per questo mi permetterò una
divagazione, come dire?, linguistica. Sul nome dei seguaci di Grillo, i
grillini. Quella desinenza nuoce. Dà l’idea di qualcosa di piccolo, di minore,
perfino un po’ ridicolo. Dilettantesco. O infantile. Non è facile, per coloro
che si propongono cose molto serie, essere –ini.
Ci sono riusciti bene i garibaldini, ai quali quella desinenza conferisce un
carattere evocativo di giovinezza vitale e un po’ ribalda. Anche gli aderenti
alla repubblica di Salò, i repubblichini, l’hanno portata come qualcosa di
serio: tragicamente, atrocemente, orribilmente serio. Non infantile, tuttavia,
non ridicolo. Per l’aderente al Movimento 5 stelle la desinenza –iano sarebbe molto migliore. È una
desinenza che sottolinea l’importanza dell’idea o del nome che la precede:
cartesiano, mazziniano, galileiano, cristiano. Anche nel male, eventualmente: hitleriano,
staliniano. Non definisce però quasi mai cose di poco conto e in ogni caso
suggerisce l’idea di una riflessione approfondita dietro le ragioni
dell’appartenenza: non si è darwiniani, kantiani, freudiani per caso. Dunque,
se davvero nomina sunt lumina, i
grillini hanno tutto l’interesse a diventare grilliani. Ce l’ha anche Beppe
Grillo. Ce l’hanno anche tutti coloro che guardano quel movimento con simpatia
e con speranza.
Chiusa la parentesi. Ho detto che la rivoluzione del Movimento 5
stelle è sacrosanta, e lo confermo. Ma modificare la forma della rappresentanza
politica, sostituendone quanto più possibile il carattere di democrazia
delegata con quello di democrazia diretta nella misura in cui i moderni mezzi
informatici lo consentono, è impresa non da poco, d’importanza forse storica. Un’impresa
dunque che richiede un’elaborazione compiuta e articolata tanto della teoria che
della prassi: come non è, lo riconosceranno gli stessi autori,.il dialogo tra
Fo, Casaleggio e Grillo edito da Chiarelettere, che ha altri fini e altri
significati. Ma l’importanza dell’impresa che il Movimento 5 stelle si propone
richiederebbe almeno un saggio con premesse, svolgimento, conclusioni. Non si
pretende certo un Montesquieu che scriva un nuovo “Spirito delle leggi” ma una
riflessione storica, politica, sociale, economica ed anche antropologica
condotta con rigore filosofico e scientifico mi pare necessaria. Sarebbe quello
che permette al grillino di diventare un grilliano. “Il Grillo canta sempre al tramonto” è di
piacevole lettura e pieno di spunti ampiamente condivisibili: ma Montesquieu è
altra cosa. Riflessioni come queste, lo so, non sono mai gradite al
rivoluzionario che vede in ogni osservazione un freno all’impeto dell’azione e
dunque a Grillo non piacerebbero le mie parole come piace invece a me buona
parte delle sue. Ma tant’è.
Io credo che oggi - è il 22 marzo, mentre scrivo - il grillismo si
trovi tra l’incudine e il martello: l’incudine della rivoluzione e il martello
della politica. Mi spiego. Avrebbe mai potuto re Luigi aprire un tavolo di trattative
con gli assalitori della Bastiglia? La rivoluzione non può che essere intransigente:
col nemico non si discute, si tenta di distruggerlo e basta. È l’unica
strategia possibile. La politica, invece, è l’esatto contrario: è l’arte della
mediazione. È negoziato. È cedere qualcosa all’avversario in cambio di qualcosa
che gli si richiede. Non tutto-o-nulla:
piuttosto, un po’. Poco è meglio di niente. Accontentarsi del meno peggio è
bestemmia rivoluzionaria e saggezza politica. Ma il Movimento 5 stelle ha dei
deputati in Parlamento: e lì, nel luogo della politica, dovrebbe svolgersi la
rivoluzione. Impresa audace ma foriera di inevitabili contraddizioni. Quindici
grillini hanno scelto Grasso come presidente del Senato, invece di Schifani:
nel loro pensiero, il male minore. Grillini politici. Ma i grillini
rivoluzionari avrebbero dovuto rifiutare la scelta. E infatti Grillo li ha
bacchettati. Succederà ancora, succederà molte volte.
Il programma del movimento, che deve essere accolto integralmente,
senza eccezioni, da chi voglia ottenerne il voto di fiducia in Parlamento, contiene,
in venti punti, obiettivi rivoluzionari e politici mescolati tra loro. Credo invece
che sia molto importante, quando si affronta l’ardua impresa di perseguire contemporaneamente
entrambi, distinguere sempre a quale dei due tenda, volta per volta, l’azione del
momento, proprio perché le strategie differiscono molto. Anche chi, come me,
approva in parte non piccola il pensiero di questa nuova forza politica, è
costretto a ritrarsi perché non condivide (è legittimo o no?) il merito di
alcune scelte – vedi, nel caso mio, il punto 8 sull’uscita dall’euro - che nulla hanno a che vedere coi pincìpi. La strategia
del “prendere o lasciare” senza discriminazione è indubbiamente efficace. Ma ha
un costo. Che al contadino affamato si dica: “Abbi pazienza! Adesso prendo il
Palazzo d’Inverno e con questo cambierà il mondo: quello nuovo sarà fatto in
modo da dare pane anche a te”. Ma i contadini non hanno tempo di aspettare che
il mondo cambi per avere pane: è adesso che muoiono di fame. La rivoluzione,
però, va per la sua strada, non può fermarsi: non si ferma nemmeno se deve
ghigliottinare i suoi Robespierre o assassinare i suoi Trotzki, figuriamoci.
Coniugare l’intransigenza rivoluzionaria con le necessità
dell’azione politica è la difficoltà di chi le sceglie entrambe: e il Movimento
5 stelle lo ha fatto. Non ha avuto soltanto il voto, intellettualmente
motivato, degli indignati dell’arrogante immoralità politica: ne ha raccolto
anche moltissimi nel Sulcis, a Taranto, nei luoghi del disagio sociale (ma
quale disagio! Sofferenza, piuttosto, dramma), là dove occorre intervenire
presto, subito. E nel voto di quegli elettori, la speranza politica nel modesto
ovetto di oggi è più grande della speranza rivoluzionaria nella grassa gallina
di domani.
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