venerdì 28 giugno 2013

GRILLINI O GRILLIANI?

“C’est une révolte?” domandò Luigi XVI al duca di Liancourt quando seppe che era stata presa e distrutta la Bastiglia. “Non, Sire, - rispose il duca – c’est une révolution”.  

Una rivoluzione. Ma cosa distingue una rivoluzione da una rivolta? Gli obiettivi, credo. Nelle rivolte, essi sono costituiti da cose concrete che si vogliono ottenere con una provvisoria disobbedienza, più o meno violenta, alle regole che la società impone: ma basta così. Ottenuto ciò che voleva, sempre che la repressione non l’abbia preventivamente messa a tacere, la rivolta cessa. Non così la rivoluzione, che non intende semplicemente disattendere le regole: vuole sovvertirle.
Il 25 febbraio, col Movimento 5 stelle, la rivoluzione è sbarcata nel Parlamento italiano. Pacificamente. Fornendo, alla collera sociale, alla delusione, al senso rabbioso d’impotenza che in quel movimento trova rappresentanza, il cammino istituzionale del voto. E ha privato la protesta, con questo, del suo carattere rivoltoso. Lasciandole però quello rivoluzionario. Finora nessuna regola è stata infranta: il movimento, tuttavia, alcune regole del gioco politico si propone di sovvertirle. Sono le regole che riguardano l’organizzazione del consenso e della prassi così come essa si presenta nei partiti tradizionali. Si sente da tempo parlare dell’invecchiamento della forma partitica della rappresentanza civile, buona al tempo della sua nascita ma che nel nostro tempo comincia a mostrare la corda. E, poiché senectus ipsa est morbus, i partiti politici presentano dovunque tratti di patologia che, in paesi fragili come il nostro, sono tanto più evidenti e gravi. Credo dunque che, almeno nell’intenzione (per il momento disponiamo di poco altro), la rivoluzione proposta da questo movimento sia sacrosanta. Tanto più che essa si propone di agire senza violenza, sebbene alcuni considerino tale quella verbale di Grillo: ma io dissento decisamente da questa opinione. La violenza verbale risiede nella menzogna, non nei toni alti della voce o nella truculenza delle espressioni. È violenza l’inganno perpetrato con il garbo della voce sussurrata, non lo è la verità gridata con parole anche rozze o volgari.
Ho molto rispetto della parola: per questo mi permetterò una divagazione, come dire?, linguistica. Sul nome dei seguaci di Grillo, i grillini. Quella desinenza nuoce. Dà l’idea di qualcosa di piccolo, di minore, perfino un po’ ridicolo. Dilettantesco. O infantile. Non è facile, per coloro che si propongono cose molto serie, essere –ini. Ci sono riusciti bene i garibaldini, ai quali quella desinenza conferisce un carattere evocativo di giovinezza vitale e un po’ ribalda. Anche gli aderenti alla repubblica di Salò, i repubblichini, l’hanno portata come qualcosa di serio: tragicamente, atrocemente, orribilmente serio. Non infantile, tuttavia, non ridicolo. Per l’aderente al Movimento 5 stelle la desinenza –iano sarebbe molto migliore. È una desinenza che sottolinea l’importanza dell’idea o del nome che la precede: cartesiano, mazziniano, galileiano, cristiano. Anche nel male, eventualmente: hitleriano, staliniano. Non definisce però quasi mai cose di poco conto e in ogni caso suggerisce l’idea di una riflessione approfondita dietro le ragioni dell’appartenenza: non si è darwiniani, kantiani, freudiani per caso. Dunque, se davvero nomina sunt lumina, i grillini hanno tutto l’interesse a diventare grilliani. Ce l’ha anche Beppe Grillo. Ce l’hanno anche tutti coloro che guardano quel movimento con simpatia e con speranza.
Chiusa la parentesi. Ho detto che la rivoluzione del Movimento 5 stelle è sacrosanta, e lo confermo. Ma modificare la forma della rappresentanza politica, sostituendone quanto più possibile il carattere di democrazia delegata con quello di democrazia diretta nella misura in cui i moderni mezzi informatici lo consentono, è impresa non da poco, d’importanza forse storica. Un’impresa dunque che richiede un’elaborazione compiuta e articolata tanto della teoria che della prassi: come non è, lo riconosceranno gli stessi autori,.il dialogo tra Fo, Casaleggio e Grillo edito da Chiarelettere, che ha altri fini e altri significati. Ma l’importanza dell’impresa che il Movimento 5 stelle si propone richiederebbe almeno un saggio con premesse, svolgimento, conclusioni. Non si pretende certo un Montesquieu che scriva un nuovo “Spirito delle leggi” ma una riflessione storica, politica, sociale, economica ed anche antropologica condotta con rigore filosofico e scientifico mi pare necessaria. Sarebbe quello che permette al grillino di diventare un grilliano.  “Il Grillo canta sempre al tramonto” è di piacevole lettura e pieno di spunti ampiamente condivisibili: ma Montesquieu è altra cosa. Riflessioni come queste, lo so, non sono mai gradite al rivoluzionario che vede in ogni osservazione un freno all’impeto dell’azione e dunque a Grillo non piacerebbero le mie parole come piace invece a me buona parte delle sue. Ma tant’è.
Io credo che oggi - è il 22 marzo, mentre scrivo - il grillismo si trovi tra l’incudine e il martello: l’incudine della rivoluzione e il martello della politica. Mi spiego. Avrebbe mai potuto re Luigi aprire un tavolo di trattative con gli assalitori della Bastiglia? La rivoluzione non può che essere intransigente: col nemico non si discute, si tenta di distruggerlo e basta. È l’unica strategia possibile. La politica, invece, è l’esatto contrario: è l’arte della mediazione. È negoziato. È cedere qualcosa all’avversario in cambio di qualcosa che gli si richiede.  Non tutto-o-nulla: piuttosto, un po’. Poco è meglio di niente. Accontentarsi del meno peggio è bestemmia rivoluzionaria e saggezza politica. Ma il Movimento 5 stelle ha dei deputati in Parlamento: e lì, nel luogo della politica, dovrebbe svolgersi la rivoluzione. Impresa audace ma foriera di inevitabili contraddizioni. Quindici grillini hanno scelto Grasso come presidente del Senato, invece di Schifani: nel loro pensiero, il male minore. Grillini politici. Ma i grillini rivoluzionari avrebbero dovuto rifiutare la scelta. E infatti Grillo li ha bacchettati. Succederà ancora, succederà molte volte.
Il programma del movimento, che deve essere accolto integralmente, senza eccezioni, da chi voglia ottenerne il voto di fiducia in Parlamento, contiene, in venti punti, obiettivi rivoluzionari e politici mescolati tra loro. Credo invece che sia molto importante, quando si affronta l’ardua impresa di perseguire contemporaneamente entrambi, distinguere sempre a quale dei due tenda, volta per volta, l’azione del momento, proprio perché le strategie differiscono molto. Anche chi, come me, approva in parte non piccola il pensiero di questa nuova forza politica, è costretto a ritrarsi perché non condivide (è legittimo o no?) il merito di alcune scelte – vedi, nel caso mio, il punto 8 sull’uscita dall’euro -  che nulla hanno a che vedere coi pincìpi. La strategia del “prendere o lasciare” senza discriminazione è indubbiamente efficace. Ma ha un costo. Che al contadino affamato si dica: “Abbi pazienza! Adesso prendo il Palazzo d’Inverno e con questo cambierà il mondo: quello nuovo sarà fatto in modo da dare pane anche a te”. Ma i contadini non hanno tempo di aspettare che il mondo cambi per avere pane: è adesso che muoiono di fame. La rivoluzione, però, va per la sua strada, non può fermarsi: non si ferma nemmeno se deve ghigliottinare i suoi Robespierre o assassinare i suoi Trotzki, figuriamoci.
Coniugare l’intransigenza rivoluzionaria con le necessità dell’azione politica è la difficoltà di chi le sceglie entrambe: e il Movimento 5 stelle lo ha fatto. Non ha avuto soltanto il voto, intellettualmente motivato, degli indignati dell’arrogante immoralità politica: ne ha raccolto anche moltissimi nel Sulcis, a Taranto, nei luoghi del disagio sociale (ma quale disagio! Sofferenza, piuttosto, dramma), là dove occorre intervenire presto, subito. E nel voto di quegli elettori, la speranza politica nel modesto ovetto di oggi è più grande della speranza rivoluzionaria nella grassa gallina di domani.

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